PROGETTO RIZOMA – RACCONTO DI UN PROGETTO

PROGETTO RIZOMA

La mappa non è il territorio e il nome non è la cosa designata

Racconto di un progetto

È entrato nella sua fase finale il Progetto Rizoma, realizzato da Legambiente Verona e da collaboratori esperti, come prima esperienza di progettazione sociale e mirato al reinserimento sociale e lavorativo di soggetti ritenuti svantaggiati, in stato di disoccupazione.

L’attività è nata da un’idea sorta come tentativo di dar voce al significato più profondo dell’ambiente, non pensabile, soprattutto in questi tempi, come qualcosa che non tenga conto delle relazioni e delle persone che vivono lo spazio e lo abitano con la propria singolarità. Negli ultimi anni abbiamo notato come anche la nostra Associazione, pur occupandosi di ambiente, inquinamento, urbanistica e di tutte le dinamiche che caratterizzano la nostra storia e la nostra attività, sia stata naturalmente coinvolta nell’orizzonte del sociale: dal 2014, infatti, abbiamo incontrato più di cento persone che hanno svolto, presso le nostre sedi, lavori di pubblica utilità e messa alla prova, mostrando spesso come le attività svolte, oltre a estinguere la pena e dare un prezioso contributo, si rivelassero soprattutto come un fenomeno che aveva più a che fare con l’incontro e le relazioni tra persone in un luogo. Tale incontro è fondamentale nell’associazionismo e nel volontariato. Oltre a questo, abbiamo collaborato con i Servizi Sociali del territorio veronese per l’avvio di tirocini inseriti nel programma Reddito di inclusione attiva e, attraverso una convenzione con il  carcere, abbiamo fatto partecipare alcuni detenuti come volontari alle nostre attività.

Da queste premesse, è nata la convinzione di scrivere un progetto marcatamente sociale che potesse incontrare in modo differente le persone che sarebbero venute in contatto con la nostra associazione: la differenza stava nel fornire non solamente uno strumento pratico per il reinserimento lavorativo, ma anche un accompagnamento personale che potesse sia intercettare liberamente i bisogni di relazione legati a soggetti disoccupati, sia creare uno spazio di parola che permettesse di far affiorare desideri e rimettere in discussione conformazioni stabili che spesso si instaurano nella visione delle cose di chi rimane a lungo ai margini della vita lavorativa o che viene nominato socialmente svantaggiato, categoria che, come tutte le definizioni, tende a immobilizzare più che a offrire quel movimento di trasformazione di cui avrebbe bisogno.

Essenziale nel moto di realizzazione dell’idea è stata Fondazione Cariverona, che ha scelto di credere nel nostro desiderio e di finanziare il progetto, contribuendo in maniera determinante alla trasformazione in realtà delle riflessioni che ci avevano portato alla scrittura.

I percorsi, ancora in atto, sono stati momenti preziosi in cui l’incontro con i partecipanti e le partecipanti è stato bilaterale, e lo scambio reciproco: questo grazie alla accezione filosofica che abbiamo voluto dare a questi momenti di consulenza, spogliati quindi di qualsiasi tentativo terapeutico, tecnico o di riferimento psicologico, analitico o assistenziale.

Le parti più pratiche del progetto, invece, hanno riguardato un corso di lingua inglese presso la Cambridge School of English di Verona, cha ha dato la possibilità ai fruitori di iniziare o proseguire un confronto con la conoscenza di una lingua ormai essenziale nel mondo del lavoro, e un corso di giardinaggio realizzato dai Maestri di Giardino, associazione piemontese abituata a lavorare non solo in senso tecnico e scientifico ma soprattutto attraverso una filosofia del giardino le cui basi di pensiero e cultura professionale si sono adattate perfettamente al taglio del progetto che dall’inizio avevamo in mente. Siamo stati colpiti dal brillante spirito con il quale sia Cambridge School che i Maestri di Giardino hanno scelto di partecipare e di credere in questo progetto anche nel suo aspetto più sociale, impegnandosi nella ricerca delle insegnanti e degli esperti più adatti umanamente alla buona riuscita delle attività e riadattando con impegno e pazienza i programmi e lo studio dei costi al fine di realizzare le azioni nella maniera migliore possibile per chi ne avrebbe poi beneficiato.

Per concludere la narrazione di questa esperienza, qualche dettaglio sul titolo: rizoma. Il vocabolo è volutamente tratto dal lessico naturalistico – il rizoma è un fusto perenne che “presenta un aspetto che ricorda quello della radice, dalla quale però si distingue perché reca foglie ed è diviso in internodi” (Treccani), solitamente disposto orizzontalmente – ma corrisponde anche a un concetto filosofico pensato e sviluppato da Gilles Deleuze e Felix Guattari, che lo descrivono così: “Un rizoma, come stelo sotterraneo, si distingue assolutamente dalle radici e dalle radicelle. […] Il rizoma in se stesso ha forme molto diverse, dall’estensione superficiale ramificata in tutti i sensi fino alle solidificazioni in bulbi e tuberi. [Presenta] princìpi di connessione e di eterogeneità: qualsiasi punto di un rizoma può esser connesso a qualsiasi altro e deve esserlo. È molto differente dall’albero o dalla radice che fissano un punto, un ordine”.

Abbiamo ritenuto che queste riflessioni incarnassero con precisione il desiderio retrostante a questo progetto: creare connessioni, far emergere punti di snodo, vie nuove, canali, costellazioni di significati risonanti nelle soggettività, possibili vie di fuga, trasformazioni, strade differenti, orizzontali, escrescenze da vedere, percepire, rinominare perché arrivino alla luce; dare voce a potenzialità, voci inespresse. Abbiamo ritenuto che la radice della questione sociale potesse aprirsi e ridisegnarsi attraverso questo carattere rizomatico, chiedendo un gesto che avesse che fare con la lingua, che rinomina e ridefinisce, e con il territorio, che come un giardino va osservato, chiede cura, incarna il tempo e le trasformazioni.

Siamo soliti osservare i problemi, il territorio, la città, attraverso dati, numeri, parametri, mappe: ma per incontrarli, attraverso Rizoma, ci siamo accorti che è necessario attraversarli, incarnarli, vedere le difficoltà, scontrarci con ostinazioni e abitudini da sciogliere; anche, soprattutto, con questioni che non abbiamo potuto sciogliere, che si sono trasformate in domande da porre a noi stessi come soggetti promotori.

D’altronde, come scrive Gregory Bateson, “la mappa non è il territorio e il nome non è la cosa designata”.